STRANIZZA D’AMURI

Regia: Giuseppe Fiorello

Cast: Gabriele Pizzurro, Samuele Segreto, Fabrizia Sacchi, Simona Malato, Antonio De Matteo, Enrico Roccaforte, Sebastiano Tinè, Giuditta Vasile

Genere: Drammatico/Italiano

Durata: 2h 20m

Cinema Garibaldi di Piazza Armerina

Dal 6 al 12 Aprile (escluso Lunedì 10)

1° SPETTACOLO 19:00

2° SPETTACOLO 21:30

Trama:

Sicilia, estate 1982. Nino è il figlio maggiore in una famiglia di creatori di fuochi d’artificio: gente onesta, allegra e laboriosa. Il ragazzo ha appena terminato il liceo con profitto e il suo regalo è stato quel motorino con cui scorrazza gioiosamente attraverso la campagna siciliana. Gianni è un suo coetaneo tornato dal riformatorio che vive in un altro paese con la madre e il patrigno che gli ha dato un lavoro nella sua officina e un tetto sopra la testa, ma che lo tratta con continuo disprezzo. Di fronte all’officina c’è il bar i cui avventori si dilettano a prendere in giro il ragazzo additandolo come omosessuale. Un giorno, mentre Gianni sta andando a consegnare un Ciao ad un cliente, Nino lo sperona con il suo motorino: è la scintilla che accende un’amicizia meravigliosa, che potrebbe condurre a qualcosa di molto più profondo. Ma la Sicilia rurale dei primi anni Ottanta non è il luogo per questo tipo di relazioni dai confini incerti.

Giuseppe “Beppe” Fiorello esordisce alla regia del lungometraggio Stranizza d’amuri, già titolo di una celebre canzone del suo concittadino Franco Battiato, con un progetto che può giungere inaspettato rispetto alla sua immagine cinematografica e televisiva di maschio alfa, quando invece è proprio questo a rendere la sua scelta particolarmente interessante.

Perché il suo punto di vista su una giovane relazione omosessuale, ispirata a fatti realmente accaduti, è quello di un uomo adulto siciliano ed eterosessuale, intenzionato a evidenziare quei pregiudizi dei quali il suo film mostra le radici culturali e la persistenza tenace.

Fiorello ricrea un mondo e un momento nel passato che appartiene alla sua autobiografia con grande onestà e immediatezza, riportandoci ad un’epoca di ottimismo (sottolineata dalla marcia trionfale della nazionale di calcio verso la vittoria nel campionato mondiale) e di relativa spensieratezza che oggi sembrano fantascienza, e soprattutto ricordandoci la luce, i colori, le temperature ambientali ed emotive di quelle estati al sud che sembrava non dovessero finire mai, e in cui i giovani potevano immaginarsi onnipotenti.

Fiorello e i suoi cosceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa tratteggiano tanto i vitelloni omofobi del bar e il patrigno violento quanto i genitori di Nino affettuosi, ironici e aperti agli altri, benché pronti a tramandare tradizioni che appartengono ad un patriarcato millenario. Personaggio pieno di ombre è invece la madre di Gianni, che ha già conosciuto la discriminazione nei confronti del figlio e vive nella paura di non saper proteggere né lui né se stessa dalla crudeltà della società patriarcale siciliana.

Fiorello dirige abilmente un cast di attori in gran parte sconosciuti al grande pubblico, fra cui spiccano i due giovani protagonisti – il luminoso Gabriele Pizzurro e il più oscuro Samuele Segreto – e Simona Malato nei panni di Lina, la madre tormentata di Gianni, ma anche il resto del cast, da Fabrizia Sacchi e Antonio De Matteo nei panni dei genitori di Nino a Enrico Roccaforte in quelli del patrigno, dal piccolo Raffaele Cordiano (il fratellino Totò) a Roberto Salemi (lo zio Pietro). Anche le scelte di regia sono azzeccate, mai manipolative, sempre alla ricerca di una rievocazione autentica di un ambiente ed emozioni vivissime, anche nella memoria di chi racconta, mai banale o meramente estetizzante nelle inquadrature intrise di un sud riconoscibile, pieno di attenzione verso i personaggi e i dettagli. L’unico problema, per gli spettatori non siciliani, sarà capire il dialogo in siciliano stretto, che a volte richiederebbe sottotitoli.

Il risultato è una storia che ci ricorda cosa voglia dire essere maschio in una cultura mediterranea tradizionale, e con garbo gentile ma anche con inattesa crudeltà, fuori da ogni illusione bucolica, ci fa presente che nella Sicilia degli anni Ottanta (e anche oggi, anche a Nord di Crema) non fosse (e spesso ancora non sia) possibile chiamare i sentimenti e le persone con il loro nome, senza pagare per questo un prezzo altissimo.