Regia: Quentin Tarantino.
Cast: Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Margaret
Qualley.
Genere: Drammatico, Thriller – USA, 2019
Durata: 161 Minuti.
Cinema di Piazza Armerina
dal 19 Settembre
1° SPETTACOLO ore 18:00 – 2° SPETTACOLO ore 21:00
Trama:
Los Angeles, 1969. Sharon Tate, promettente attrice americana e sposa di Roman Polanski, è la nuova vicina di Rick Dalton, star della televisione in declino. Dalton condivide la scena con Cliff Booth, stuntman che si è fatto (e rotto) le ossa nei western girati a Spahn Ranch. Controfigura e chauffeur di Dalton, Cliff vive in una roulotte con una cane disciplinato e fedele proprio come lui che da anni ammortizza le cadute e i rovesci dell’amico. E l’ultimo scacco costringe Rick e il suo doppio a traslocare dall’altra parte dell’oceano per girare un pugno di spaghetti-western. Sei mesi e una moglie (italiana) dopo, Rick e Cliff tornano a Los Angeles dove li attende la notte più calda del 1969.
Il cinema può salvare il mondo? Quentin Tarantino crede in ogni caso che possa vendicare gli ebrei (Bastardi senza gloria), affrancare dalla schiavitù (Django Unchained), cambiare il passato e offrire la chance ai vinti di regolare i conti coi propri carnefici.
In risonanza con Django Unchained e Bastardi senza gloria, che offrivano un’alternativa alla Storia facendo un falò dei gerarchi nazisti e dei bianchi schiavisti dell’America alla vigilia della Guerra Civile, C’era una volta…a Hollywood segue lo schema appropriandosi della storia del cinema, di una storia del cinema. La vendetta, sempre. Sempre più catartica, sempre più selvaggia, sempre più appassionante e sadica sul piano della rappresentazione. A compierla è un altro irresistibile tandem, due naufraghi della sottocultura hollywoodiana, un attore di serie B e la sua controfigura, che sembrano sognare ciascuno la vita dell’altro mentre le rispettive carriere colano a picco sotto il peso dei fallimenti e delle frustrazioni. Ma la vendetta questa volta non è quella dei personaggi, inconsapevoli ‘dei fatti reali’, ma è quella di un autore romantico che crede nell’immenso potere del cinema, che crede che tutto sia ancora possibile, come se la finzione potesse deflagrare la realtà.
Agli spettatori Tarantino offre un’esperienza differente, imbarcandoli nella sua nostalgia e nella deambulazione urbana piuttosto che costruire daccapo intrighi esplosivi. Per la prima volta rinuncia alla cavalleria, evocando con riguardo e pudore il soggetto che gli sta più a cuore: il suo amore per il cinema. C’era una volta…a Hollywood è un film intimo e contemplativo, lisergico e (incredibilmente) lineare su un’età dimenticata, perduta, sul cinema della sua infanzia, quello che lo ha innamorato perdutamente mentre il colore diventava la norma e Hollywood perdeva la sua innocenza sotto i colpi di coltello di Charles Manson e dei suoi adepti. Il cinema di Steve McQueen e di Bruce Lee, quello dei vecchi western di seri B e delle produzioni televisive poliziesche degli anni Sessanta.
La macchina da presa infila, come il documentario del debutto, le quinte dell’industria dei sogni con Leonardo DiCaprio che assume su di sé l’afflizione degli attori che conoscono la gloria per preparare meglio il proprio tramonto, Brad Pitt che gioca sfacciato e disinvolto le ombre del cinema e Margot Robbie che risorge Sharon Tate dalla finzione per allacciare il film alla realtà storica.
Realtà di cui crediamo di sapere tutto, di comprendere tutto, dimenticando che siamo in una sala buia e che il ‘proiezionista’ è Quentin Tarantino. L’autore che come nessuno è capace di reinventare il cinema, di reinventare la violenza al cinema, trasgredendo le regole della Storia, immaginando una soluzione o un’uscita di emergenza. In C’era una volta…a Hollywood gli eventi non si svolgono come nella realtà, la loro declinazione rivela una sorpresa, una svolta imprevedibile.
Ancora una volta la finzione viene in soccorso della realtà, abbracciando la crudeltà assassina del mondo per riscattarla. L’espediente, che altrove funzionava da gag metaforica, in C’era una volta…a Hollywood si eleva a professione di fede (estetica), trasformando il film in un canto melanconico che nessuno slancio irridente può incidere. Perché l’effervescenza dei sermoni ai quali Tarantino ci ha educati lasciano il passo allo spleen e invitano lo spettatore a perdersi. E i primi a smarrirsi sono i suoi protagonisti dopo otto whisky e troppi margarita.
Nella Los Angeles del 1969, anno cerniera di una rivoluzione culturale e cinematografica (usciva in sala Easy Rider, primizia e simbolo della New Hollywood), Tarantino incontra la ‘famiglia’ di Charles Manson e quella di Sharon Tate, Roman Polanski e Sergio Corbucci, l’aristocrazia hollywoodiana (Sharon Tate e Roman Polanski) e l’attore al declino a cui fa eco la base della piramide sociale del cinema, lo stuntman Cliff Booth. La passione e la volontà di preservare il cinema sono al centro del film come il desiderio di salvarne la musa. Per Sharon Tate, Tarantino inventa due cavalieri erranti, uno per l’acrobazia e uno per la ribalta, ruba ‘c’era una volta’ a Sergio Leone e restituisce alla locuzione la sua aura infantile. Un’espressione di candore incarnata da un’attrice appena sbocciata che il film ‘tocca’ da lontano, con grazia e in una sequenza spettacolare in cui Sharon Tate va al cinema per (am)mirarsi nel film che condivide con Dean Martin (Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm).
Sullo schermo Margot Robbie osserva solare ed estatica la performance dell’artista che interpreta perché è la vera Sharon Tate che appare nel buio della sala. Con l’omaggio, la sequenza rivela allo spettatore la ‘distanza’ riverente con la quale Tarantino ha deciso di trattare il soggetto. Ed è in quella intenzione che abita la più bella idea del film: sognare in pieno giorno, in pieno sole di ritardare la caduta dal cielo (drive), provando a afferrare un istante temporale nella sua infinita brevità.